di Ilaria Carloni
Com’è nata l’idea di mettere in scena “Natale in casa Cupiello”?
Mi sono reso conto che erano trent’anni che facevo solo spettacoli scritti da me, restando sempre sul tema della comicità, così ho pensato ad un testo di un altro autore e, chi, meglio di Eduardo!
Perchè Eduardo?
Oltre alla grandezza dell’uomo, io ho cominciato nel ’77 con lui, così parlando con il mio socio nelle produzioni del Teatro Diana Giampiero Mirra, abbiamo pensato alla commedia per eccellenza, “Natale in casa Cupiello”.
Hai avuto un po’ di ansia a mettere in scena una commedia così complessa?
Avevo inizialmente un po’ di preoccupazione poi, però, mi sono detto che non dovevo fare la commedia che tutti conoscono, ma riprendere il testo e farlo mio. Mi sono dedicato al testo con amore e già leggendola le prime volte era come stare a casa, mi veniva naturale. Non l’ho affrontata con paura ma con devozione e responsabilità.
La paura non è un sentimento che deve accompagnare le cose, altrimenti non vanno fatte.
Cosa hai voluto far emergere dalla commedia?
E’ una commedia sui sentimenti. Ha quasi cento anni ed è incentrata sulla figura femminile e maschile. Concetta è quel tipo di donna della Napoli greca, un pilastro della famiglia. Lei vorrebbe controllare la realtà, mentre Cupiello vuole controllare, come tutti i maschi, l’immaginazione. Ha la fantasia del presepe, a lui piace il sentimento di pace che gli porta il presepe. Quando scopre che la vita non è un presepe, muore di crepacuore.
Che ricordo hai dell’incontro con Eduardo?
Eduardo l’ho incontrato per la prima volta nel ’77, come c’è scritto sul siparietto. Sergio Solli mi disse che cercava comparse per la registrazione di “Natale in casa Cupiello”, così andai a Cinecittà, lui uscì dallo studio in camicia da notte e Sergio Solli gli disse “Questo ragazzo vuole fare la comparsa”, ma lui rispose “Facciamogli dire qualche battuta così ha diritto alla paga”. Poi Solli mi confidò che gli aveva detto questo perché mi aveva visto “secco secco” e pensava che mangiassi poco. Era un uomo molto umano, sensibile, che esprimeva forza nel suo viso, era austero come gli uomini di quell’epoca.
I tuoi genitori hanno appoggiato la scelta di fare l’attore?
Ho frequentato il Liceo classico Umberto, facevo su e giù da Bacoli ci impiegavo un’ora. I miei genitori ci tenevano tanto allo studio. Mio padre mi avrebbe voluto avvocato come lui, ma io sono nato per fare l’attore, quindi si sono rassegnati. Già a 17 anni dormivo fuori, non tornavo la notte, ero uno spirito libero.
Quando hai capito che avresti fatto l’attore?
Non so per quale motivo, ma a 13 anni avevo la netta sensazione che sarei andato a Roma per fare l’attore. Già da bambino, dalle suore, amavo recitare e stare sul palcoscenico. Quando ero piccolissimo avevo una fantasia, che era quella di vivere in un uomo trasparente. C’era tutto il mondo fuori, lo potevo frequentare senza che nessuno potesse toccarmi. Se ci pensi, quello è il palcoscenico.
Il palcoscenico ha esorcizzato la tua timidezza?
Sono abbastanza timido, tendo ad essere riservato, ma sul palcoscenico è come se stessi lì dove non può succedermi nulla. E’ il posto dove sono più in contatto con me stesso.
Cosa è per te la malinconia?
Credo che la malinconia sia un fatto culturale, è un modo di leggere la vita. A Napoli abbiamo questa duplicità, siamo sempre ironici, ma al tempo stesso malinconici. Noi viviamo con il Vesuvio che è un vulcano attivo, ma lo consideriamo un monumento alla bellezza. Io vengo dai campi Flegrei, dove sotto scorre lava: questo contrasto tra il paesaggio bellissimo e il pericolo che c’è sotto, genera quella malinconia.
Un lato nascosto di te.
Non mi piace esporre il dolore troppo intimo pubblicamente quando è relativo ad altre persone. E’ come mettere in piazza qualcun altro, ma per quello che riguarda solo me, non ho difficoltà a mostrarmi anche negli aspetti più bui. Sono pronto a parlare e a condividere. Cerco di essere me stesso, anche perchè il vero lavoro dell’attore è portare se stesso.
Teatro e cinema. Differenze.
Al teatro decido tutto, al cinema devo andare incontro a tante esigenze, quindi ovviamente non riesco a fare il prodotto esattamente come dico io. Per me è più complicato il cinema solo per questo motivo.
Sei al cinema con “La guerra dei nonni”. Com’è stato interpretare un nonno?
Ho vestito i panni di un nonno in coabitazione con Max Tortora che è simpaticissimo. Io interpreto il nonno tradizionale, un restauratore di legno, lui invece è un nonno moderno, un giramondo, ma alla fine cerca una famiglia e ci ritroviamo ad andare incontro l’uno all’altro. Io abbandono delle certezze e lui ne trova altre.
Che rapporto hai con i bambini?
Adoro i bambini, purtroppo non ho figli e per me è un gran rimpianto, mi sarebbe piaciuto avere tanti figli e tanti nipoti. I bambini sono immediati sono veri, non hanno sovrastrutture, quei “denti di cane” che si formano sotto l’animo umano come sotto le barche. Li considero un miracolo. Quando vengono a teatro e restano fermi davanti a “Natale in casa Cupiello”, che è una commedia assolutamente per adulti, resto basito e penso che vedano qualcosa che noi non possiamo cogliere, e che ha a che fare con la manifestazione di Dio.
Cosa è per te Dio?
Dio lo immagino come un palcoscenico. Non sono un credente nel senso classico. Non mi piace la parola “credere”, presuppone l’obbedienza ed io penso che se Dio esiste, ci voglia liberi. Io spero in Dio, ma non di rivedermi in un aldilà così come sono. Immagino l’universo così immenso, così pienamente intenso: ecco, mi perdo in quel pensiero e per me in quello smarrimento c’è Dio. Dio non è nella certezza, ma nello smarrimento. Non mi piace che l’idea che Dio ci faccia sentire sicuri, ma piuttosto smarriti. Siamo spesso pieni di stupide, illusorie certezze, quando la vita è come un fiume che scorre. Lo smarrimento della vita è l’emozione più forte che esista, e questa, per quanto mi riguarda, me la può dare il palcoscenico.
Come ti senti sul palcoscenico?
Sei travolto dai sentimenti e dalle emozioni. Si entra in contatto con se stessi, anche se per pochi attimi e quando succede, è inebriante.
Che rapporto hai con la materia, con i soldi, col successo?
Non sono molto pratico, se mi lasci in un posto, là mi trovi. Non sono capace di vivere la vita pratica, la realtà pratica mi paralizza quasi. Il rapporto col danaro è legato solo alla paura di ammalarmi e di non avere i soldi per curarmi. La salute è il bene più prezioso, quindi i soldi mi interessano solo relativamente a questo aspetto. Il successo è arrivato così lentamente che io nemmeno me ne sono accorto. Quando mi riconoscono ancora mi meraviglio. Del successo mi piace l’affetto, il fatto che le persone mi considerino uno di famiglia. E mi piace ricambiarle con un sorriso.
Da chi hai preso questa gentilezza?
Di carattere somiglio a papà. Mio padre, Enzo Maria, era un uomo bellissimo, sembrava l’attore hollywoodiano Robert Mitchum. Quando veniva a scuola a parlare con i professori, i ragazzi restavano a bocca aperta. Era anche molto dolce. Era un papà tenero, ci preparava la colazione, era quasi femminile nella sua gentilezza. Aveva una vena artistica pur facendo l’avvocato: sapeva suonare e disegnava molto bene.. Mamma Clotilde era caparbia, teneva banco, era una donna molto intelligente. Le somiglio molto fisicamente.
Hai mai ansia nel tuo lavoro?
Ho ansia solo in quello che già sto facendo, mai in quello che dovrò fare. Dopo mezz’ora dalla fine dello spettacolo inizio a domandarmi se vada tutto bene, o se ci sia qualcosa da cambiare. Ma riguardo al lavoro futuro non ho mai ansia, perchè lo faccio con un tale entusiasmo che sono pieno di ottimismo.
n° 94 gennaio 2024