di Ilaria Carloni
Una donna unica quella che c’è sotto il carismatico abito della dj internazionale. Un’anima bella, fragile e forte allo stesso tempo, spietatamente sincera, ma soprattutto profonda, che si consegna all’interlocutore con risposte che lasciano senza fiato per l’immediatezza, la nudità del pensiero, la saggezza. Una donna che porta indelebili le tracce di una bambina che si cibava dei vinili del papà nei sabati pomeriggio casalinghi, in quella Scampia che le è stata madre e che l’ha affamata al punto da darle quella forza per emergere.
Deborah, com’è nata la passione per la musica?
La passione della musica è nata con me. Ricordo il momento in cui ho scoperto la dance: mio padre mi mise un vinile di Madonna ed io iniziai ad interessarmi a questo genere. Economicamente in famiglia eravamo molto in difficoltà, quindi pregavo mia madre di comprarmi le pile che si scaricavano continuamente nel walkman. Ne consumavo tante, cercavo di centellinarle, ma si scaricavano ogni 24 ore, ricordo che la musica rallentava ed io andavo in crisi.
Quando hai capito che potevi fare della musica un lavoro?
Ho sempre cercato di lavorare con la musica, qualunque lavoro facessi: la cameriera, la barista: la musica era sempre con me, mi accompagnava. Non credevo, però, potessi farne un lavoro, mi hanno incanalato gli altri. Non pensavo di essere all’altezza, era un sogno che consideravo irrealizzabile. Il mio obiettivo era solo portare a casa lo stipendio per pagarmi un affitto ed aiutare i miei genitori. Ancora oggi, quando ci penso, non ci credo.
La tua vita è stata divisa tra Nord e Sud, ma il tuo cuore è rimasto sempre a Napoli. Cosa rappresenta per te questa città?
Ho vissuto molti anni al Nord, ma ho sempre sentito l’appartenenza ad un altro luogo. A scuola durante l’adolescenza ho avuto un periodo difficilissimo, non mi capivano e non volevo essere capita. Mi mancava casa e casa mia era Napoli, coi suoi colori, i suoi sapori, la musica. Per me Napoli è una mamma e noi siamo tutti figli, tutti fratelli. Napoli è madre e Dio insieme. Non si può spiegare a chi non è napoletano, non è solo la bellezza della città, ma è qualcosa di viscerale. E’ come se mettendo i piedi nudi a terra, ci collegassimo alla nostra città. Infatti io cammino sempre scalza anche dove non dovrei.
La tua prima etichetta e i tuoi primi dischi. Quale è stata per te la tappa fondamentale?
La mia prima tappa significativa è stata quando un produttore napoletano importante, Giuseppe Cennamo, mi aiutò ad aprire la mia etichetta. Era il 2013. Da lì il mondo della musica ha iniziato a prendermi un po’ più sul serio. Lui mi ha insegnato a fare dischi, ne sfornavo almeno quattro, cinque al mese perché avevo tanta roba in testa.
La tua famiglia ha accettato questa strada?
La mia famiglia non mi ha mai detto nulla perché ho iniziato tardi a fare la dj, avevo 28 anni. Prima di questo lavoro ho fatto di tutto, la cameriera, la barista, ho lavorato in un discount, come maestra d’asilo. Questo lavoro oggi ci consente di vivere bene e di non avere paura della bolletta della luce, del telefono, cose che in passato erano un incubo.
Il mondo della discoteca è associato ad una vita sregolata. Cosa ti tiene in equilibrio?
In passato molto di più. Il nostro mondo era alcool, droga e notti brave, il dj era quello stanco, con le occhiaie, ubriaco… Oggi è cambiata l’idea del dj: ha una figura un po’ più healty, mangia sano, si allena, è spesso vegano ecc. Io sono astemia, mi sveglio presto e dormo presto durante la settimana. Non mi piace buttare via la giornata dormento fino al pomeriggio. Poi vivo sola con i miei cani, quindi loro mi tengono molto in equilibrio dovendomene prende cura.
La vita da dj pensi sia conciliabile con quella di una famiglia?
L’idea che chi fa il dj non possa avere una famiglia è sbagliata. Il dj è via solo nel week end ed è a casa dal lunedì al venerdì. Non ho voluto avere figli per scelta, perché non è un mondo bello per mettere al mondo una persona. Lo trovo un atto di egoismo. Ma non è vero che un dj non ha tempo per un figlio, anzi, per me non ha tempo chi fa un lavoro d’ufficio e sta fuori dalle 8 alle 19 tutti i giorni.
Il tuo è un ambiente maschilista?
Tutti gli ambienti sono maschilisti. Il mio mondo è molto maschilista, anzi più sessista che maschilista. Noi donne siamo accusate di tutto, se mettiamo una foto più osè, è per mettere in mostra il nostro corpo e ti chiedono “vuoi fare la dj o la modella?”. Se lo fa un uomo, è figo. Noi dj siamo spesso accusate di avere la musica già fatta da altri, questa illazione non è mai diretta agli uomini. Se una donna ha un’ascesa professionale, non si guarda alla gavetta, ma si pensa subito male.
Un ricordo da bambina.
Ho tanti ricordi da bambina, quello che più mi è caro e che mi ha formato, è quando ascoltavo musica con mio padre nella sala da pranzo. Aveva una collezione grandissima di vinili ed io facevo avanti e indietro dal divano al giradischi per sputacchiare sulla puntina e cambiare disco.
Scampia nelle tue radici. Cosa ti ha lasciato quella terra?
Scampia è dentro di me. Sento che le mie origini sono lì ed io sono buona parte di quel luogo. E’ una terra difficile e in pochi cercano di capirla realmente, danno l’etichetta e basta. Di Scampia mi è rimasta la fame. Quando c’è qualcuno che emerge da quella terra, è perché nasci e vivi con la fame. Ma non fame di cibo, ma fame di tutto, perché lì fondamentalmente non c’è nulla. Quindi fame di quello che vedi in tv, che senti in radio, lo vuoi vivere anche tu, quindi cerchi un buco per scavare con un cucchiaino e piano piano riesci ad andare via e trovare quello che cerchi. Ma alla fine hai sempre bisogno di tornare lì. Sempre.
Come ti vedi tra vent’anni?
Allora è una domanda complicata. Ti direi che non vorrei esserci tra vent’anni, poi magari la vita mi sorprende e avrò voglia di rimanere. ma di base non vorrei esserci.
Il rapporto col tuo corpo e con il passare degli anni.
Non farei mai a cambio con la mia me di vent’anni fa, neanche di trenta. Oggi mi vedo molto meglio, sia fisicamente che psicologicamente. In passato ero più delicata, quest’anno ho avuto un tumore alle ovaie e uno della pelle che mi hanno lasciato delle cicatrici. Qualche anno fa sarei impazzita, invece mi sono scoperta cresciuta, ho accettato le mie cicatrici come segni della mia vittoria. Mi sono scoperta meno superficiale di quello che pensavo.
L’emozione della consolle. Cosa si prova ad avere davanti migliaia di persone?
Suonare è sempre emozionante, anche in club di nicchia con 500 persone. In alcuni casi sono molto più nervosa, specie ai festival come Awakenings, dove c’è grande aspettativa su di te e ci sono promoter e dj alle tue spalle che sono lì solo per vedere quello che fai. Quello mi rende molto nervosa al punto che mi faccio venire la febbre.
Un ricordo particolare legato a una serata.
Eravamo all’Estation a Cordoba, pioveva a dirotto, io ero con la giacca e lo scaldino mentre suonavo. Dopo quattro ore di set sotto al diluvio, duecento persone restarono nonostante tutto. Ecco, quelle duecento persone mi hanno fatto emozionare tantissimo.
Un posto dove hai suonato che ti è rimasto nel cuore.
Ci sono tanti posti belli, ma uno che ricordo con particolare emozione è uno in Sri Lanka, si chiama Booka Booka in mezzo alla foresta e le persone ballavano scalze.
I’M? Come ti definisci?
I’M… autosabotatrice. Quando c’è un po’ di felicità, cerco sempre di sabotarla in tutti i modi. Ho un carattere molto forte, sono testarda e ho bisogno disperato di avere sempre il controllo diretto su tutto ciò che mi riguarda. Sono anche fragile come un bicchiere di cristallo che quando lo hai tra le mani si spacca, ma anche di ferro per molte cose che ho vissuto e che mi hanno resa molto forte.