di Fabrizio Carloni
Appartengo ad una famiglia di media borghesia che vive con disagio esistenziale (nel senso che viviamo bene e non siamo costretti a fare la fila alla Caritas per alimentarci e per soddisfare altre miserie quotidiane) l’accanimento con cui in Italia da un trentennio a questa parte viene trattata questa classe; in particolare, irrita ed indigna molto me e mia moglie il continuo drenaggio fiscale e collaterale fatto di bollette più salate e di testatici come l’IMU, la TARI, il carburante.
Nei momenti nostalgici in cui di prima mattina soprattutto per quanto mi riguarda si pensa al trascendente, il pensiero va al passato fortunatamente lungo e pieno di varie esperienze, legnate e speranze. Ricordo quindi l’infanzia mia e dei miei cinque fratelli passata nelle campagne dei Castelli Romani vicini a Roma in due bellissime (così mi sembravano) ville: Villa Tarquini e, prima, Villa Piserchia.
L’economia era fatta di riti più o meno importanti ma consuetudinari, con gli anziani del consorzio famigliare delegati a compiti apparentemente secondari: la nonna paterna, che aveva talento eccezionale nel preparare da mangiare, era delegata alla cucina che gestiva con grande attenzione al soddisfacimento dei gusti dei commensali. A casa sua, a Roma, si poteva, come da antiche tradizioni ancestrali, andare a qualsiasi ora del giorno o della notte senza che ci fosse la probabilità di digiunare.
Aveva, la nonna, per le emergenze, una riserva strategica di patate, di guanciale e di concentrato di pomodoro con cui in poco tempo predisponeva gli gnocchi o le crocchette di patate. Con i panini sempre caldi del salumiere rapidamente allertato, la mattina preparava tramezzini con il prosciutto che tutti gli anni veniva acquistato in Umbria per un accorto utilizzo invernale (quando finiva, con l’osso e le cotenne accuratamente conservate si preparava una pasta e fagioli da non dimenticare); l’osso debitamente spolpato si dava poi al nostro cane Jack.
L’altra nonna, anche lei del 1899, aveva completato l’università a Napoli ed era dedita, soprattutto dopo la pensione da maestra, a dare lezioni ai nipoti dai cinque ai 14 anni (successivamente subentrava nostra madre che insegnava latino e greco nei licei classici); in entrambe le soluzioni i risultati erano deludenti perché l’attività prevalente dei discenti, come ci siamo confidati da grandi, era pensare ad altre cose che non fossero gli argomenti della lezione somministrata; io avevo un’assoluta concentrazione sulla guerra in Vietnam dove svolgevo il ruolo di Berretto Verde statunitense ed ogni tabellina era messa in relazione con l’M16 ed i colpi rimasti da sparare.
Poi c’era mio padre che quasi sempre era sui cantieri di lavoro (era un tecnico di pozzi petroliferi) dove si recava su una Campagnola scoperta facendo migliaia di chilometri anche con neve e vento coperto da un giaccone di pelle di cavallo.
Non posso non ricordare il personale ausiliario di questo piccolo aggregato sociale: c’erano a Villa Tarquini Edvige e Leandro che oltre che alla vigna si dedicavano al commercio di terreno ferace dato dalla raccolta dei ciocchi di castagno in disfacimento; nel periodo giusto toccava ai fichi d’india. Leandro maneggiava questi ultimi per spinarli con getti d’acqua che prelevava dal pozzo e li manipolava con due mani che avevano la pelle della consistenza del cuoio. Erano addolorati perché non avevano figli (in tarda età ebbero una bambina molto bella).
A Villa Piserchia c’erano Adelaide e Rizziero con un figlio, Giovannino, che in cambio dei miei giocattoli mi prestava la sua fionda fatta artigianalmente e con cui riusciva a colpire i pipistrelli in volo. Rizziero era un reduce della Prima Guerra Mondiale e mi chiedeva di procurargli i giornali di papà (Il Tempo di Roma) con le cui pagine rollava le sigarette di trinciato.
C’erano, poi, le domestiche, tra cui ricordo con particolare affetto la Signora Era che era toscana e Santina, una ragazza marchigiana di poco più di 18 anni, che come da usi d’allora lavorava e si preparava, imparando, ad essere una buona protagonista nella sua casa.
In poche parole, un sistema che ho ricordato perché rimanga una traccia pur labile di quello che era l’ecumene degli anni del dopoguerra, fatto di soggetti la cui funzione in questi decenni si è dimenticata. Non sono sicuro che fosse l’unico mondo possibile ma molti valori si sono persi ed ora se ne sente il bisogno con un poco di nostalgia.


